jeudi 30 janvier 2020

Come fu inventato un popolo: decostruzione di una storia mitica.



Che cos'è l'antisionismo?
Molto spesso capita di sentir definire l'antisionismo come  antisemita ed antisraeliano. 
In realtà vi è in questa opinione un equivoco di fondo legato anche alla natura del sionismo.
Questo è un'ideologia nazionalista nata nel XIX secolo, caratterizzata da diverse sfumature ed orientamenti politici e culturali, che si sostanziò in un movimento internazionale che postulava la necessità di uno stato per il popolo ebraico e che concretamente pose le basi per la nascita dello stato di Israele.
L'antisionismo invece critica questo nazionalismo ebraico ed il costrutto mitico ed ideologico che lo caratterizzano.
Se il sionismo è maggioritario nella comunità ebraica israeliana ed internazionale esiste però una agguerrita minoranza antisionista in questa comunità.
Altra cosa è invece che molti dei temi legati all'antisionismo siano stati fatti propri e cavalcati da chi vorrebbe la distruzione dello stato di Israele.
Al contrario è anche vero, però,che la critica all'antisionismo è non di rado volutamente schiacciata su una sua assimilazione all'antisemitismo come espediente dialettico per depotenziarlo e tacitarlo.
L'articolo che posto è di un antisionista, Shlomo Sand, storico e docente presso le Università di Tel Aviv e poi di Berkeley.
È un interessante esempio di antisionismo mediato attraverso l'analisi storica e decostruttivista del mito fondantivo dell'ebraismo sionista.




La distruzione delle mura di Gerico.


Ogni israeliano sa, senza ombra di dubbio, che il popolo ebraico esiste da quando ha ricevuto la Torah ( 1 ) nel Sinai e che è il suo discendente diretto ed esclusivo. 
Tutti sono convinti che questo popolo una volta fuori dall'Egitto, si stabilì nella "Terra Promessa", dove fu costruito il glorioso regno di David e Salomone, poi diviso in Giudea e Israele. Allo stesso modo, tutti sanno che il popolo ebraico ha vissuto in esilio in due occasioni: dopo la distruzione del Primo Tempio nel secolo VI a. C. e poi in quella successiva del Secondo Tempio nel 70 d.C..
Seguì un vagabondaggio di quasi duemila anni: le sue tribolazioni lo portarono in Yemen, Marocco, Spagna, Germania, Polonia e persino nelle parti più remote della Russia, ma riuscì sempre a preservare i legami di sangue tra le sue comunità remote. Pertanto, la sua unicità non è stata modificata. 

Alla fine del 19 ° secolo, le condizioni maturarono per il suo ritorno nell'antica patria. Senza il genocidio nazista, milioni di ebrei non avrebbero naturalmente ripopolato Eretz Israel (" la Terra di Israele ") dopo averlo sognato per venti secoli.

Vergine, la Palestina stava aspettando che arrivasse la sua gente originale e la facesse rifiorire. Perché apparteneva a loro, e non a questa minoranza araba, priva di storia, arrivata lì per caso. Giuste furono le guerre combattute dal popolo errante per riguadagnare il possesso della loro terra e vincere l'opposizione violenta e criminale della popolazione locale.

Da dove viene questa interpretazione della storia ebraica? 
È il lavoro, iniziato nella seconda metà del XIX secolo, di talentuosi ricostruttori del passato, la cui fertile immaginazione ha inventato, sulla base di pezzi di memoria religiosa, ebraica e cristiana, una sequenza genealogica continua per il popolo ebraico. L'abbondante storiografia dell'ebraismo include certamente una pluralità di approcci. Ma le controversie al suo interno non hanno mai messo in discussione l'essenzialità di tali concezioni sviluppate principalmente alla fine del XIX secolo e all'inizio del XX.

Quando le scoperte sembravano contraddire la linearità dell'immagine del passato, queste difficilmente ricevevano eco. L'imperativo nazionale ha respinto qualsiasi contraddizione o deviazione dalla storia dominante.
I dipartimenti universitari dedicati esclusivamente alla "storia del popolo ebraico", distinti da quelli che insegnano quella che è conosciuta in Israele come storia generale, hanno dato un contributo significativo a questa visione selettiva. Persino il dibattito legale su "chi è ebreo?" non riguardava questi storici: per loro sono ebrei tutti i discendenti del popolo costretto all'esilio duemila anni fa.

Questi ricercatori "autorizzati" del passato non hanno partecipato alla controversia dei "nuovi storici", iniziata alla fine degli anni 1980. La maggior parte degli attori di questo dibattito pubblico, in numero limitato, provenivano da altre discipline o da ambienti extra universitari: sociologi, orientalisti, linguisti, geografi, politologi, ricercatori di letteratura, archeologi hanno formulato nuove riflessioni sul passato ebraico e sionista. C'erano anche laureati dall'estero nei loro ranghi. D'altra parte, i "dipartimenti di storia ebraica" rimasero su posizioni difensive e conservatrici, fermi nella retorica apologetica basata sulle idee ricevute.

In breve, in sessant'anni la storia nazionale è maturata molto poco e probabilmente non cambierà nel breve periodo. Tuttavia, i fatti emersi con la ricerca pongono a qualsiasi storico onesto domande che a prima vista sono sorprendenti, ma comunque fondamentali.

La Bibbia può essere considerata un libro di storia?
I primi storici ebrei moderni, come Isaak Markus Jost o Leopold Zunz, nella prima metà del XIX secolo, non la pensavano così: ai loro occhi, l'Antico Testamento non fu altro che il libro teologico costitutivo delle comunità religiose ebraiche dopo la distruzione del primo tempio. 
Fu solo nella seconda metà del secolo che Heinrich Graetz (1817-91) e altri svilupparono una visione "nazionale" della Bibbia e trasformarono il viaggio di Abramo a Canaan, la fuga dall'Egitto e il regno unito di David e Salomone in un autentico passato nazionale. Con la costante ripetizione, gli storici sionisti hanno successivamente trasformato queste "verità" bibliche nella base dell'educazione nazionale.

Ma poi, durante gli anni '80, la terra tremò, scuotendo questi miti fondatori. 
Le scoperte della "nuova archeologia" contraddicono la possibilità di un grande esodo nel 13 ° secolo a.C.. Allo stesso modo, Mosè non riuscì a far uscire gli ebrei dall'Egitto e condurli verso la " terra promessa " per la buona ragione che all'epoca ... era nelle mani degli egiziani. Inoltre, non vi è traccia di una rivolta di schiavi nell'impero dei faraoni, né di una rapida conquista del paese di Canaan da parte di un elemento estraneo.

Non vi è inoltre alcun segno o ricordo del sontuoso regno di David e Salomone. Le scoperte dell'ultimo decennio mostrano l'esistenza, a quel tempo, di due piccoli regni: Israele, il più potente, e Giuda, la futura Giudea. Né gli abitanti di quest'ultimo subirono l'esilio nel sesto secolo a.C.: solo le sue élite politiche e intellettuali dovettero stabilirsi a Babilonia. Da questo decisivo incontro con i culti persiani nacque il monoteismo ebraico.

L'esilio del 70 d.C. ebbe davvero luogo ? 
Paradossalmente, questo "evento fondante" nella storia degli ebrei, da cui proviene la diaspora, non ha dato il via al minimo lavoro di ricerca. E per una ragione molto prosaica: i romani non hanno mai esiliato un popolo in tutto il lato orientale del Mediterraneo. Con l'eccezione dei prigionieri ridotti in schiavitù, gli abitanti della Giudea continuarono a vivere nelle loro terre, anche dopo la distruzione del secondo tempio.

Alcuni di loro si convertirono al cristianesimo nel IV secolo, mentre la stragrande maggioranza abbracciò l'Islam con la conquista araba nel 7 ° secolo. 
La maggior parte dei pensatori sionisti ne erano consapevoli: Yitzhak Ben Zvi, in seguito presidente di Israele, e David Ben Gurion, il suo primo primo ministro, lo accettarono nel 1929, anno della grande rivolta palestinese. Entrambi hanno affermato in diverse occasioni che i contadini della Palestina erano i discendenti degli abitanti dell'antica Giudea (2) .

Ma se non ci fu esilio dopo il 70 d.C., da dove venivano tutti gli ebrei che hanno popolato il Mediterraneo fin dall'antichità? 
La cortina fumogena della storiografia nazionale nasconde una realtà sorprendente. Dalla rivolta dei Maccabei, nel II secolo a.C., alla rivolta di Bar-Kokhba, nel II secolo d.C., l'ebraismo fu la religione proselitizzante più attiva. Gli Asmoneani avevano già forzatamente convertito gli Idumei della Giudea meridionale e gli Itureani di Galilea, annessi al "popolo di Israele". A partire da questo regno giudaico-ellenico, l'ebraismo si diffuse in tutto il Vicino Oriente e nel Mediterraneo. Nel primo secolo della nostra era comparve, nell'attuale Kurdistan, il regno ebraico di Adiabene, che non sarà l'ultimo regno a "giudeizzarsi": altri faranno lo stesso in seguito.

Gli scritti di Flavio Giuseppe non sono l'unica testimonianza dell'ardore proselitizzante degli ebrei. Da Orazio a Seneca, da Giovenale a Tacito, molti scrittori latini esprimono tale timore. La Mishnah e il Talmud ( 3 ) autorizzarono la pratica della conversione, anche se i saggi della tradizione talmudica espressero delle riserve con la crescente pressione del cristianesimo.

La vittoria della religione di Gesù, all'inizio del IV secolo, non fermò l'espansione dell'ebraismo, ma spinse il proselitismo ebraico ai margini del mondo culturale cristiano. Nel V secolo, un vigoroso regno ebraico denominato Himyar apparve sul sito dell'attuale Yemen, i cui discendenti avrebbero mantenuto la loro fede dopo la vittoria dell'Islam fino ai tempi moderni. Allo stesso modo, i cronisti arabi ci raccontano dell'esistenza, nel VII secolo, di tribù berbere giudaizzate: con l'avanzata araba, che raggiunse il Nord Africa alla fine dello stesso secolo, appare la leggendaria figura della regina ebrea Dihya el-Kahina, che cercò di contrastarla. I berberi giudaici, poi, parteciperanno alla conquista della penisola iberica e vi getteranno le basi di quella particolare simbiosi tra ebrei e musulmani che caratterizzò la cultura ispano-araba.

La conversione di massa più significativa si verifica tra il Mar Nero e il Mar Caspio: riguarda l'immenso regno khazar, nell'VIII secolo. L'espansione dell'ebraismo, dal Caucaso all'attuale Ucraina, genera molteplici comunità, che le invasioni mongole del XIII secolo spingeranno numerose verso l'est dell'Europa. Lì, insieme agli ebrei delle regioni slave meridionali e dei territori tedeschi odierni, gettarono le basi per la grande cultura yiddish ( 4 ) .

Fino al 1960 circa le complesse origini del popolo ebraico erano più o meno con riluttanza riconosciute dalla storiografia sionista. Ma in seguito furono emarginati e infine cancellati dalla memoria pubblica israeliana. I conquistatori della città di David, nel 1967, dovevano essere i discendenti diretti del suo mitico regno e non - Dio non voglia ! - gli eredi dei guerrieri berberi o dei cavalieri Khazar. Gli ebrei appaiono quindi come un "etnos" specifico che, dopo duemila anni di esilio e di vagabondaggio, ha finito per tornare a Gerusalemme, la sua capitale.

I fautori di questa narrazione lineare e monolitica non solo mobilitano l'insegnamento della storia: convocano anche la biologia. Dagli anni '70, in Israele, con una serie di ricerche "scientifiche" ci si è sforzati di dimostrare, con tutti i mezzi, la vicinanza genetica degli ebrei nel mondo. "La ricerca sulle origini delle popolazioni" rappresenta ora un campo legittimo e popolare della biologia molecolare, mentre al cromosoma Y maschile si è offerto un posto d'onore accanto ad una Clio ebraica ( 5 ) in una frenetica ricerca dell'unicità originale del "Popolo Eletto".

Questa concezione storica costituisce la base della politica identitaria dello Stato di Israele ed è qui che sta il problema!
Dà origine a una definizione essenzialista ed etnocentrica del giudaismo, alimentando una segregazione che tiene gli ebrei separati dai non ebrei, che siano arabi, immigrati russi o lavoratori immigrati.

Israele, sessant'anni dopo la sua fondazione, rifiuta di concepire se stessa come una repubblica esistente per tutti i suoi cittadini. Quasi un quarto di essi non sono considerati ebrei e, secondo lo "spirito" delle sue leggi, questo Stato non è il loro.
D'altra parte, Israele si presenta ancora come lo stato degli ebrei di tutto il mondo, anche se non sono più rifugiati perseguitati, ma cittadini a pieno titolo che vivono in piena uguaglianza nei paesi in cui risiedono. In altre parole, un'etnocrazia senza confini giustifica la grave discriminazione che pratica contro parte dei suoi cittadini invocando il mito della nazione eterna, ricostituita per radunarsi sulla "terra dei suoi antenati".

Scrivere una nuova storia ebraica, al di là delle lenti distorcenti sioniste, non è quindi facile. La luce che le attraversa  continua a frammentarsi in uno spettro etnocentrico. Ora gli ebrei hanno sempre formato comunità religiose, non di rado per conversione, in varie regioni del mondo: non rappresentano quindi un "ethnos" erede di una comune e singola origine, che si sarebbe spostato nel corso di un girovagare di venti secoli.

Lo sviluppo della storiografia e l'evoluzione della modernità furono le conseguenze dell'invenzione dello stato nazionale, che interessò milioni di persone durante tutto il XIX ed il XX secolo.
Il nuovo millennio ha visto questi sogni iniziare a frantumarsi. 
Un numero crescente di ricercatori sta analizzando e decostruendo i grandi resoconti  delle retoriche nazionali, e in particolare i miti fondativi comune e cari alle cronache del passato. I sogni identitari di ieri lasceranno il posto, domani, ad altre fantasie identitarie. Come ogni personalità composta da identità fluide e varie, anche la storia è un'identità in movimento.


Shlomo Sand
Storico, professore all'Università di Tel Aviv.

Articolo tratto da le Monde Diplomatique.


Davide uccide Golia.


 Note:
1 )  Il testo fondativo dell'ebraismo, la Torah - la radice ebraica yara significa insegnare - è composta dai primi cinque libri della Bibbia o Pentateuco: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio.
2 )  Cf. David Ben Gurion e Yitzhak Ben Zvi, "  Eretz Israel  " nel passato e nel presente (1918, in yiddish), Gerusalemme, 1980 (in ebraico) e Ben Zvi, La nostra popolazione nel paese (in ebraico ), Varsavia, Comitato esecutivo dell'Unione dei giovani e Fondo nazionale ebraico, 1929.
3 )  La Mishna, considerata la prima opera di letteratura rabbinica, fu completata nel II secolo d.C. Il Talmud sintetizza tutti i dibattiti rabbinici riguardanti la legge, i costumi e la storia degli ebrei. Esistono due Talmud: quello della Palestina, scritto tra il III e il V secolo, e quello di Babilonia, completato alla fine del V secolo.
( 4 ) Parlato dagli ebrei dell'Europa orientale, lo yiddish è una lingua slavo-tedesca che include parole dall'ebraico.
5 )  Nella mitologia greca Clio era la musa della storia.

Per approfondire:

La Question de Palestine - Tome 1 - L'invention de la Terre sainte (1799-1922) di Henry Laurens

Sionisme: histoire et structures actuelles di Moshe Zuckermann

La nouvelle histoire d'Israël. Essai sur une identité di Ilan Greilsammer

AUX ORIGINES DU SIONISME POLITIQUE: Theodor Herzl, Israël Zangwill et la négation de Sion di Uri Eisenzweig


Defining Antisemitism di Dina Porat.

When an anti-semite is not an anti-semite di Arthur Neslen

Zionism, raccolta di testi da consultare e leggere su Open Library

vendredi 24 janvier 2020

UNUS MUNDUS OVVERO IMAGINATIO, MEDITATIO, ORATIO: L'OPERATIVITÀ ALCHEMICA INTERIORE.

Sino a circa il XVI secolo la pratica alchemica era indissolubilmente sia esteriore (al forno) che interiore, come dire due facce della stessa medaglia.
Oggi l'Arte Reale è più materia per dotte disquisizioni che di reale operatività.
Anche fra i pochi "praticanti", prevale o l'aspetto speculativo/dottrinario o quello meramente pratico "al forno", cosa che legittimamente ci fa chiedere, in quest'ultimo caso, se si tratti di meri "soffiatori". 
Interessante sarebbe invece approfondire l'operatività interiore, sia nel suo aspetto teorico che in quello prettamente pratico degli "strumenti", anche in connessione alla pratica esteriore: imaginatio (immaginazione), meditatio (meditazione) ed oratio (preghiera).




Sicuramente se riducessimo l'Alchimia al mero lavoro al forno, come pur fecero certe riletture di cultura positivista, considerandola così null'altro che una protochimica, non avremmo la piena comprensione di ciò che essa invece realmente fu.

È con Herbert Silber prima e poi con Carl G. Jung, che la contemporaneità riscopre la maggiore complessità dell'Alchimia.

Jung nello studio sistematico del simbolismo alchemico  notò la somiglianza dell'immaginario degli  alchimisti e del mondo onirico dei suoi pazienti.
Cosa che fece dire a Jung che gli alchimisti proiettavano i contenuti dell'inconscio sulla "struttura della materia" ed interpretava quindi in chiave psicoanalitica tale processo. (1)



Ciò naturalmente trovò la ferma opposizione, tra gli altri, di Canseliet, Burckhardt ed Évola che gli contestarono proprio la sua idea di un presunto approccio "ingenuo" dell'alchimista all'Opera, quando invece questi ben sapeva cosa faceva.

Sappiamo che in seguito Jung cambierà radicalmente idea, grazie all' intenso scambio epistolare (2) sul concetto di sincronicità con Wolfang Pauli, uno dei padri della fisica quantistica, ed alla scoperta della Meditazione Ermetica con lo studio di Gerhard Dorn (3), "allievo" di Paracelso, in cui ritroviamo il concetto di Unus Mundus, che Jung farà proprio.

L'idea di base di Dorn è la stessa che Jung aveva raggiunto nella sua corrispondenza con il Pauli, che ciò che chiamiamo corpo e ciò che chiamiamo spirito nascano dalla decoerenza (per usare il termine quantistico corrispondente) di uno stato precedente, in cui entrambi formano un uno e dove non c'è separazione tra soggetto e oggetto.

La conclusione a cui giungono i due interlocutori nel loro epistolario è che, dietro sia la materia che la psiche, esista un livello più elementare, che non è né materiale né psichico, ma precedente alla differenziazione tra psiche e materia. 
Jung paragonò questo livello fondamentale della realtà al pleroma gnostico e lo definì una psiche oggettiva , un termine che sostituì così l'espressione "inconscio collettivo" che, all'improvviso, iniziò a sembrare inappropriato. Ed è qui che si troverebbero gli archetipi.
Maestro discepolo alchimia
Se quindi agli inizi dei suoi studi sull'Alchimia, Jung immagina l'operatività dell'alchimista sostanziarsi in una proiezione dei propri contenuti archetipici inconsci nel suo lavoro per realizzare la pietra filosofale (4), finisce, poi, per arrivare a qualcosa di completamente diverso! Vale a dire, alla percezione che l'alchimia avesse una concezione molto più profonda della natura della realtà rispetto alla nostra.


Canseliet, Burckhardt ed Évola non avrebbero avuto nulla di cui lamentarsi.
Qualcosa di simile a quanto immaginato da Baruch Spinoza, che ispirato anche dalle sue conoscenze della Kaballah, concepiva il pensiero (la res cogitans) e la materia (la res extensa) come i due soli attributi (come la luce ed il calore sono due attributi della fiamma) con cui l'essere umano può concepire la sostanza (cioè Dio).
Così si può intuire come per gli antichi l'operatività esteriore, quella al forno, che spesso viene considerata come una forma ingenua di protochimica, fosse intimamente connessa a quella interiore, e che non fosse possibile procedere in una senza praticare anche l'altra.
Difatti l'Alchimia fu sino al XVI secolo connessa al lavoro al forno. 
Solo successivamente si praticò un' alchimia esclusivamente interiore, dove le forme dell' operatività concreta divennero simboliche, analogamente a quanto accadeva contemporaneamente per gli strumenti dell'operatività muratoria che divennero nella nascente massoneria anch'essi simbolici. 
Ma questa moderna alchimia interiore aveva allora ancora strumenti operativi e solo più tardi anch'essa divenne semplicemente speculativa.
Poi l'intreccio tra ambienti ermetici e neoplatonici, connessi alla pratica alchemica, con la nascente massoneria speculativa dal XVI secolo in poi non sono casuali oltre che essere ben noti.
Ma come si sostanziava la pratica interiore degli alchimisti?
Quali gli strumenti dell'Alchimia interiore?

Un esempio di tecnica, conosciuta anche nelle tradizioni ermetica e neoplatonica, ne abbiamo menzione, nell'Estasi Filosofica di Tommaso Campanella. (5)

La realtà dell'operatività degli antichi, però, era molto più vasta di quanto comunemente creduto, ma le fonti sono molto scarse in quanto tali tecniche erano essenzialmente trasmesse bocca/orecchio o espresse in forma velata.
Ciò perché la stessa letteratura ermetica nelle sue forme, non solo simboliche ed allegoriche, ma anche letterali , ad iniziare da quella alchemica, spesso si esprime polisemanticamente. Così quelle che possono sembrare indicazioni di un lavoro esteriore, in realtà lo sono specularmente anche di uno interiore e viceversa.

In realtà le forme del lavoro interiore accennate nel titolo di questo post toccano parzialmente la ricchezza della diversità di tecniche del mondo antico, e nella loro concettualizzazione storica non le definiscono pienamente perché non di rado si confondono e si toccano fra di loro.

Robert Fludd, De praeternaturali utriusque mundi historia 1621

Marsilio Ficinio chiarisce che per immaginatio vera deve intendersi qualcosa di diverso dalla fantasia, cosa ribadita dal Villanova nel suo "Rosarium philosophorum".
In effetti essa può intendersi nelle sue diverse forme tecniche sia come introiezione che come proiezione.
Nel primo caso pensiamo a Proclo ed alla sua teurgia che potremmo per l' aspetto che a noi interessa definire anagogica, ma anche alla pratica di interiorizzare immagini (la cui genesi non è necessariamente razionale/speculativa) come sigilli, allegorie, ecc., non a caso come nella mnemotecnica, spesso arte ausiliare, perché siano mezzi di associazioni, intuizioni, proiezioni di contenuti inconsci...

In Alchimia la funzione motrice è data dall' esperienza del lavoro al forno, che in tal senso è anche un "inganno", come un koan zen, ma che è indissolubilmente legato ad un lavoro interiore, speculare ed intimamente connesso.

Una tecnica eloquente è quella con cui l' alchimista si autoinduce in un stato ipnagogico, quello tra veglia e sonno, caratterizzato da lucidità e consapevolezza in uno stato onirico/allucinatorio dove quanto arriva dalla porta dei sensi e trasfigurato dalla "proiezione" dei contenuti dell'inconscio.
Quindi in questo stato la psiche dell'alchimista diventa il "laboratorio interiore", la imaginatio vera a cui si abbandona, lo strumento della sua meditazione,
Ne troviamo accenni ad esempio in Theobald de Hogelande o in Lullo, ma come suoi praticanti troviamo un insospettabile Isaac Newton, sino ad arrivare alla riscoperta di questa tecnica da parte del movimento surrealista.

Un esempio, tra i tanti, di utilizzazione di simili tecniche tra i surrealisti lo abbiamo in Salvador Dalì.
Non a caso fu un appassionato studioso dell'Alchimia di Lullo e di Paracelso.
Nella sua produzione artistica è evidente quel lavoro interiore con l'immaginatio vera propria dei filosofi ermetici, per i quali tale immaginazione è quel Mercurio, messaggero ed interprete, che consente la comunicazione con il "trascendente".


Dalì trovò nell'autoinduzione in uno stato ipnagogico una fonte inesauribile di ispirazione per le proprie opere, che non di rado trovarono la loro genesi proprio in tali tecniche. Sperimentò vari modi per generare e catturare queste immagini fantastiche.
Una sua tecnica era quella di mettere un piatto di latta sul pavimento e poi sedersi davanti ad esso, tenendo un cucchiaio sopra il piatto. Rilassava quindi totalmente il suo corpo così da favorire l'insorgere del sonno.
Nel momento in cui iniziava a sonnecchiare il cucchiaio gli scivolava dalle dita finendo nel piatto, rendendolo immediatamente cosciente ma ancora in quella fase tra sogno è veglia, in cui cercava di "fissarsi" e quindi in un stato allucinatorio fatto anche da immagini surreali.

Naturalmente la difficoltà di questa tecnica è quella di afferrare consapevolmente quelle che sono fugaci esperienze oniriche, veri e propri micro-sogni, che in genere dimentichiamo appena svegli.


Salvador DalìSogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana, un attimo prima del risveglio.

Un esempio della tecnica di Dalì applicata alla produzione di un'opera d'arte è il "Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana, un attimo prima del risveglio". Il solo titolo è già di per se esplicativo della sua tecnica creativa: molti dei nostri sogni sono stimolati dai suoni, dagli odori o dalle presenze del mondo esterno, come nel caso il suono di un’ape che ci gira intorno mentre dormiamo.
Un indizio interessante di tali "trasfigurazioni fantasmagoriche" nella pratica alchemica la abbiamo negli studi di Marcel Duchamp sul De Distillatione di Giambattista della Porta:


L'androgino alchemico e la copulazione di due alambicchi; il vaso circolare di distillazione appare come un pellicano che si apre il petto per nutrire col suo sangue i suoi piccoli.

Vi è però una differenza sostanziale tra le tecniche degli artisti surrealisti e quelle degli alchimisti, che conoscono una maggiore complessità e varietà, ed è nel fine: le prime mirano a favorire una più ampliata e incredibile creatività artistica, le altre invece ad una gnosi.


Sulla funzione fondamentale dell'oratio alchemica bisognerebbe fare riferimento a quanto dice lo pseudo Fulanelli ne "Le dimore filosofale" quando accenna ad un "artifizio sconosciuto", secretum secretorum, che "segna il bivio in cui la scienza alchemica si allontana dalla scienza chimica (dando così risposta al giusto scetticismo della critica positivista sulla operatività alchemica di realizzare quanto si proponeva).
La chiave di volta, che rende possibile ciò che la scienza ritiene impossibile, è in quel passaggio a cui alludeva Paolo Lucarelli: "quello di trovare o costruire un corpo attrattivo, un magnete che sia in grado di attirare e corporificare lo Spirito".
Chiaramente ci si riferisce allo Spirito Universale, "spirito universale che dà vita e movimento a tutte le membra di questo grande corpo (cioè il Mondo)" (6),  che per i neoplatonico era l'Anima Mundi, per i cristiani lo Spirito Santo.
È il processo di corporificazione dello Spirito il perno dell'operatività alchemica, il cui risultato è quella comunemente detta Pietra Filosofale.
Insomma è per certi versi una immagine della transustazione dell' eucaristia nella ritualità e dottrina cristiana, dove la mera particola si fa corpo di Cristo, del quale il fedele partecipa attraverso il rito della comunione.
Ne conviene che il soffiatore intepreterà, perdendosi e fallendo, le elaborate metafore dell'Alchimia che descrivono tale processo in chiave prettamente di operatività esteriore, "chimica", mentre il vero alchimista la interpreterà anche come un lavoro o alchimia interiore (V.I.T.R.I.O.L.V.M.). 
Ed è qui che acquista importanza l'oratio o preghiera degli alchimisti, funzionale, appunto ad attrarre lo Spirito Universale, che però non va assolutamente confusa con le forme e la sostanza di quella della devozione popolare.
La preghiera è parte essenziale del lavoro dell'alchimista, attraverso essa invoca o meglio evoca lo Spirito del Mondo, che gli infonde la sapienza per realizzare e portare a termine il suo lavoro. Così si concretizza quel "dialogo interiore" che è parte della meditazione alchimistica e che trova nell'immaginazione vera il motore trainante.
A questo punto si apre il dissidio tra chi ha una visione prettamente interiore dell'Alchimia, dove l'operatività al forno non è prettamente necessaria o solo un "ludibrium" a servizio dell'altra, e chi ritiene l'operatività interiore ed esteriore siano intimamente connesse, tanto da essere una riflesso dell'altra, per cui il successo di una suggella in "comunione" quella dell'altra. Così la trasmutazione dei metalli non è solo una metafora per descrivere quella interiore, ma si realizza anche fisicamente.

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Note:
(1) In Carl Gustav Jung, Alchimia e psicologia, 1944.
(2) Atom and Archetype: The Pauli/Jung Letters 1932-1958.
(3) Gerhard Dorn, De Meditativa Philosophia, in Theatrum Chemicum, I, e De Philosophia Chemica ad Meditativam Comparata, 
(4) In Jung la pietra filosofale assume il significato del , fine ultimo del processo di individuazione.
(5) Prattica dell’Estasi Filosofica, testo attribuito a Tommaso Campanella, Biblioteca Nazionale di Firenze contrassegnato come Manoscritto magliabechiano, Classe VIII, codice 6, del secolo XVII:
"Bisogna eleggere un luogo nel quale non si senta strepito di alcuna maniera, all’oscuro o al barlume di un piccolo lume così dietro che non percuota negli occhi, o con occhi serrati. 
In un tempo quieto et quando l’uomo si sente spogliato d’ogni passione tanto del corpo quanto dell’animo. 
In quanto al corpo, non senta né freddo, né caldo, non senta in alcuna parte dolore, la testa scarica di catarro e da fumi del cibo et da qualsivoglia umore; il corpo non sia gravato di cibo, né abbia appetito né di mangiare, né di bere, né di purgarsi, né di qualsivoglia cosa; stia in luogo posato a sedere agiatamente appoggiando la testa alla man sinistra o in altra maniera più comoda... l’animo sia spogliato d’ogni minima passione o pensiero, non sia occupato né da mestizia o dolore o allegrezza o timore o speranza, non pensieri amorosi o di cure famigliari o di cose proprie o d’altri, non di memorie di cose passate o d’oggetti presenti; ma, essendosi accomodato il corpo come sopra, dee mettersi là, et scacciar dalla mente di mano in mano tutti i pensieri che gli cominciano a girar per la testa, et quando viene uno, subito scacciarlo, et quando ne viene un altro, subito anco lui scacciare insino che non ne venendo più, non si pensi a niente al tutto, et che si resta del tutto insensato interiormente ed esteriormente, et diventi immobile come se fussi una pianta o una pietra naturale; et così l’anima non essendo occupata in alcuna azione né vegetabile, né animale, si ritira in se stessa, et servendosi solamente degli istrumenti intellettuali, purgata da tutte le cose sensibili, non intende le cose per discorso, come faceva prima, ma senza argomenti e conseguenze: 
fatta Angelo, vede intuitivamente l’essenzia delle cose nella lor semplice natura, et però vede una verità pura, schietta, non adombrata, di quello che si propone speculare:
 perciocché avanti che si metta all’opra, bisogna stabilire quello che si vuole o speculare o investigare et intendere, et quando l’anima si trova depurata proporselo davanti, e allora gli parrà d’avere un chiarissimo e risplendente lume, mediante il quale non se gli nasconde verità nessuna. 
E allora si sente tal piacere e tanta dolcezza che non vi è piacere in questo mondo che a quello si possa paragonare: né anco il godimento di cosa amatissima e desideratissima non ci arriva a un gran pezzo. In tal maniera che, l’anima pensando d’avere a ritornare nel corpo per impiegarsi nelle vil’opere del senso, grandemente si duole et senz’altro non ritornerebbe mai se non dubitasse che per la lunga dimora in tal estasi si spiccherebbe al tutto del corpo. 
Perciocché quelli sottilissimi spiriti ne’ quali ella dimora se ne sagliano al capo, e però alcuni sentono un dolcissimo prurito nel capo, dove son gli strumenti intellettuali: e a poco a poco svaporano, i quali se tutti svaporassero, senz’altro l’uomo morerebbe. 
Et però sono più atti a quest’estasi quelli che hanno il cranio aperto per la cui fessura possono esalare alquanto gli spiriti: altrimenti se ne raduna tanti nella testa che l’ingombrano tutta et gli organi per così gran concorso si rendono inabili. 
Questa credo che sia l’estasi platonica, della quale fa menzione Porfirio che da questa Plotino sette volte fu rapito, et egli una volta; essendoché di rado si trovan tante circostanze in un uomo: contuttociò in duoi o tre anni potrebbe succedere tre o quattro volte; et quelle cose che allora s’intendono bisogna subito scriverle et diffusamente, altrimenti voi ve le scorderesti, e rileggendole poi non l’intenderesti.
(6) Clovis Hesteau de Nuysement, Les vision  hermétique et autres poèmes alchimiques..., 1650.